BUFORD POPE – Sticks In The Troath

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BUFORD POPE
Sticks In The Troath
(Unchained 2014)

A dispetto dello strano nome che sembrerebbe presagire il disco di un gruppo, Buford Pope è lo pseudonimo del rocker svedese Mikael Liljeborg, classe 1971, che con questi “bastoni in gola” dovrebbe essere giunto al suo quarto disco in poco più di dieci anni. Ascoltandolo, la prima cosa che viene in mente è che per quanto il suo rock sia dichiaratamente derivativo, nel senso che i modelli a cui si rifà sono molti, fino a che ci saranno personaggi come lui, che nel rock ci credono e continuano a suonarlo con grinta, nessuno potrà sottoscrivere dichiarazioni come quella di Sting che ormai un quarto di secolo fa andava dichiarando che il rock è morto. La musica di Buford Pope che esce da questo buon dischetto è un bel miscuglio di roots rock (anche se il termine roots non è indicatissimo per un non-americano che fa una musica americanissima), punk abrasivo e un po’ di mainstream, impreziosito dall’uso di strumenti come lap steel e banjo. Niente di nuovo forse, ma di sicuro un disco godibile, con spunti più apprezzabili ed altri forse un po’ più scontati. La title track ad esempio, con un pur accattivante attacco, o She’s Gotta Country Mouth che sembra una versione alla carta vetrata di un classico dylaniano, non dico quale, ma con la batteria mixata troppo alta rispetto al resto, al punto di dare quasi fastidio. Per contro Love Affair funziona molto bene e anche Go Your Own Way suona davvero alla grande, con le chitarre in bella evidenza. Non male anche Highway dove invece vengono fuori bene il banjo e un assolo di chitarra ispiratissimo. L’attacco di Give It Up fa molto Tom Petty (quello con gli Heartbreakers naturalmente) con chitarra e hammond a tirare il carro, mentre You Are The Drug I Use, quasi un folk alla Knopfler, ha un’intro che sa di già sentito e si discosta un po’ dal resto come atmosfere, ma con l’attacco di I’ll Geto Over That il titolare sembra citare senza vergogna l’attacco di Taneytown di Steve Earle, anche se poi il brano per fortuna si dipana altrimenti. Particolarmente riuscita invece la finale What Will Your Mama Say trascinata da una slide cattiva.

Il giudizio finale è positivo, il disco si ascolta e, soprattutto si fa riascoltare, e se vogliamo tirare in ballo qualche altro riferimento io ci trovo un po’ di Willie Nile, una spolverata di Del Fuegos e perché no anche di Steve Forbert: e credo non sia una chiave di lettura errata cercare di considerare Buford Pope come un epigono di questi artisti piuttosto che di quelli citati fino a poc’anzi, troppo ingombranti e anche troppo imitati.

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